Nessuno studioso, ricercatore, per quanto voglia
essere neutrale verso il proprio campo d’indagine può esserlo realmente fino in
fondo. Comunque si porta appresso il proprio bagaglio culturale e la propria
visione delle cose influenzando inevitabilmente l'oggetto osservato. La
fotografia che, da questo punto di vista, è stata sempre considerata come l’indagine
più obiettiva e neutrale è stata nella realtà una tra le pratiche più invasive
e potenzialmente falsificabili. Date queste premesse credo che quando ci si
trovi a fotografare, per caso o per scelta, delle realtà particolari, difficili
e delicate come possono essere persone coinvolte in qualche catastrofe, più o
meno naturale, oppure di popolazioni marginali o emarginate, come appunto in
questo caso gli zingari, occorra tener ben presente una considerazione
fondamentale che, per quanto sembri banale, è tutt’altro che scontata e per
nulla garantita una volta per tutte. L’”altro” da noi, per quanto possa
esprimere usi e costumi diversi e moralmente discutibili dal nostro punto di
vista, è a tutti gli effetti essere umano tanto quanto lo siamo noi. La macchina
fotografica è stata storicamente uno degli strumenti chiave per diversificare,
includere o escludere esseri umani da altri esseri umani. Il lavoro fotografico
proposto in questa mostra, è nato per caso: un desiderio di fotografare un
parco in fase di costruzione durante una giornata di neve, l’incontro con dei
bambini zingari, la loro richiesta di una foto. Iniziato come un gioco, così è
continuato; portando una settimana dopo le stampe agli stessi soggetti
fotografati, facendo altre foto e così via. Per alcuni mesi fino all’improvviso
sgombero del campo. La loro allegria, la loro bellezza, i loro animali, i loro
giocattoli. Non ho cercato di rubare immagini, carpire verità, ho semplicemente
fatto un gioco con loro e quando un giorno non li ho più trovati ho avvertito
una mancanza. Avevo guadagnato un parco, con la gente che corre, i cani nei
recinti, tutto bello e ordinato, ma una fetta di umanità lì non c’era più. A
quasi vent’anni di distanza queste foto escono dal cassetto e vedono per la
prima volta la luce, forse non a caso, in una nuova associazione giovanile nata
da poco nel quartiere. Giovani di oggi, saturi degli strumenti dell’era della
riproducibilità tecnica ma, per altri versi, nuovi soggetti suscettibili di
possibili neo emarginazioni imposte da un mercato del lavoro in cui esclusione
o inclusione segnano il nuovo confine del riconoscimento del grado di dignità
umana. Possibili figure di nuovi zingari precari e nomadi.
Giuliano Spagnul
2005 – Associazione Culturale La Scheggia – via
Dolomiti 11 – Milano
Nello stesso anno la mostra viene esposta alla
Fabbrica del Vapore e alla Libreria Utopia.
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