mercoledì 29 aprile 2020

Zingari al Parco della Martesana



Nessuno studioso, ricercatore, per quanto voglia essere neutrale verso il proprio campo d’indagine può esserlo realmente fino in fondo. Comunque si porta appresso il proprio bagaglio culturale e la propria visione delle cose influenzando inevitabilmente l'oggetto osservato. La fotografia che, da questo punto di vista, è stata sempre considerata come l’indagine più obiettiva e neutrale è stata nella realtà una tra le pratiche più invasive e potenzialmente falsificabili. Date queste premesse credo che quando ci si trovi a fotografare, per caso o per scelta, delle realtà particolari, difficili e delicate come possono essere persone coinvolte in qualche catastrofe, più o meno naturale, oppure di popolazioni marginali o emarginate, come appunto in questo caso gli zingari, occorra tener ben presente una considerazione fondamentale che, per quanto sembri banale, è tutt’altro che scontata e per nulla garantita una volta per tutte. L’”altro” da noi, per quanto possa esprimere usi e costumi diversi e moralmente discutibili dal nostro punto di vista, è a tutti gli effetti essere umano tanto quanto lo siamo noi. La macchina fotografica è stata storicamente uno degli strumenti chiave per diversificare, includere o escludere esseri umani da altri esseri umani. Il lavoro fotografico proposto in questa mostra, è nato per caso: un desiderio di fotografare un parco in fase di costruzione durante una giornata di neve, l’incontro con dei bambini zingari, la loro richiesta di una foto. Iniziato come un gioco, così è continuato; portando una settimana dopo le stampe agli stessi soggetti fotografati, facendo altre foto e così via. Per alcuni mesi fino all’improvviso sgombero del campo. La loro allegria, la loro bellezza, i loro animali, i loro giocattoli. Non ho cercato di rubare immagini, carpire verità, ho semplicemente fatto un gioco con loro e quando un giorno non li ho più trovati ho avvertito una mancanza. Avevo guadagnato un parco, con la gente che corre, i cani nei recinti, tutto bello e ordinato, ma una fetta di umanità lì non c’era più. A quasi vent’anni di distanza queste foto escono dal cassetto e vedono per la prima volta la luce, forse non a caso, in una nuova associazione giovanile nata da poco nel quartiere. Giovani di oggi, saturi degli strumenti dell’era della riproducibilità tecnica ma, per altri versi, nuovi soggetti suscettibili di possibili neo emarginazioni imposte da un mercato del lavoro in cui esclusione o inclusione segnano il nuovo confine del riconoscimento del grado di dignità umana. Possibili figure di nuovi zingari precari e nomadi.
Giuliano Spagnul   
2005 – Associazione Culturale La Scheggia – via Dolomiti 11 – Milano
Nello stesso anno la mostra viene esposta alla Fabbrica del Vapore e alla Libreria Utopia.



































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